Buonasera Dott. Prati, lei studioso di Mitologia e di linguaggi simbolici. Che ruolo può avere il mito in una società desacralizzata come quella di oggi?
Proprio perché la nostra società stà sempre più desacralizzandosi e perdendo ogni senso di divinità e di ascesi il racconto del mito quale racconto di potenze divine, eroi, guerrieri e imprese può aiutare culturalmente a reagire a tale collasso spirituale e morale, oltre che rappresentare un’ottima palestra di esercizio ermeneutico e logico il quanto l’essenza dei miti greco-romani è proprio quella che possiamo chiamare una “cultura sociale del sacro e del rito” che può porsi sia quale fattore di risveglio che di aggregazione contrastando le narrazioni mediatiche, artificiali, antiumanistiche. Il tema del mito purtroppo è complicato però dal fatto che gli attuali appassionati (e la stessa narrazione mainstream) non poche volte lo approcciamo mescolandolo con fantasy revisionisti, superstizioni, pensieri magici deliranti e un approccio strumentalizzante moderno-idelogico e non autenticamente immersivo e trasparente. In questo senso la potenza narrativa-evocativa del mito può al contrario essere usata in senso regressivo-tribalistico e antiumanistico a differenza dell’esperienza neoplatonica quattrocentesca del suo revival in senso filosofico e razionale-allegorico. Il mio approccio è invece limpidamente mitografico e lirico-narrativo per estrarre vitali essenze filosofiche e psichiche dal retaggio greco-romano ma restando liberi da nostalgie irrazionali o romanticherie idealizzanti fuori dal reale. Il pur magicizzante Evola può aiutare in questa operazione di filtraggio-metabolizzazione del mito distinguendo fra aspetti eroici e solari, da valorizzare, ed aspetti passivi-orgiastici da rigettare. Ma la tradizione cattolica è maestra anche in questo: non solo ha salvato tutte le fonti greco-latine dei racconti mitici ma pure da spesso creativamente aggiunto interpretazioni, riprese, rivitalizzazioni di grande profondità fin dal primo medioevo (Cristo rappresentato come Orfeo o Dioniso) fino al neoclassicismo settecentesco come tutta l’arte e la letteratura italiana dimostra. Occorre non sporcare i racconti antichi con l’ideologismo moderno, come fece Nietzsche mettendo stupidamente in contrapposizione quello che anticamente era in unione complementare: Apollo e Dioniso, ad esempio.
Tota Pulchra , l’associazione di cultura per cui sta rilasciando l’intervista, da anni oramai si impegna a diffondere l’arte sacra nel mondo. Secondo lei è possibile, con dei ritmi di vita cosi forsennati nelle più grandi metropoli del mondo, farsi ancora coinvolgere dal bello?
Sì, è ancora possibile, nonostante tutto. Recentemente ho avuto un’esperienza non comune e sovrarazionale di fronte al Giudizio Universale di Beato Angelico al Museo Nazionale di San Marco a Firenze come di fronte ad un suo piccolo dipinto quadrato raffigurante Cristo che incorona la Vergine. Ho esperito una luce che fisicamente promanava dall’opera. Una vera ierofania, improvvisa e inaspettata. Non era semplicemente ammirare la foglia d’oro dominante in questi dipinti: era sentire fisicamente la luce dentro l’anima contemplando l’opera. Non mi era mai accaduto. Altre volte ebbi forti emozioni di fronte a certe opere ma mai tale esperienza. Mi rapirono mentalmente anni fa un cupido di Parmigianino, quello che si sta intagliando l’arco guardandoti fisso (Galleria Nazionale di Parma e la Bagnante bionda di Renoir (Pinacoteca Agnelli, Torino). La forza dell’arte quale immagine e corpo stà proprio nel trasmettere un’efficacia performativa indipendente anche dalla cultura di chi la subisce. Certo che si tratta anche di una questione di sensibilità, attenzione e pazienza ma il successo di massa dei grandi musei dimostra proprio come anche un pubblico in realtà scarsamente acculturato possa avere esperienze positive dall’incontro con la grande arte. Ovviamente lo studio e la passione personale aiutano ad entrare più nel profondo ma spesso di tratta proprio dell’esigenza di un allenamento fisico, muscolare-oculare. Se non avessi visto decine di volte il Cenacolo di Leonardo la sera o di notte anni fa come funzionario addetto a controllare varie sue apertura extraorario non sarei riuscito ad entrare in alcune sue specificità e profondità. Ci vuole costanza, allenamento, come per ogni crescita umana. L’occhio deve lasciarsi rieducare dal corpo dell’opera e la mente arrendersi alla contemplazione. Poi verrà la vera conoscenza, nel tempo, il cui aspetto informazionale spesso all’inizio è più di ostacolo e distrazione che di aiuto reale all’apprezzamento e all’esperienza psicovisiva. L’opera d’arte crea e ricrea il proprio spazio e il proprio tempo e la conoscenza si rivela sempre un fatto amplessivo e non una mera procedura mentale.
Che differenza sostanziale sussiste tra l’arte visiva pre-cristiana da quella cristiana delle origini e, soprattutto, medioevale?
Due fattori fondamentali distinguono radicalmente l’arte pre-cristiana da quella cristiana denotando la superiorità di quest’ultima: la trascendenza e la carnalità. Due carismi non in contrasto ma complementariamente in simbiosi dialettica e processuale nell’arte cristiana di ogni secolo e che l’antichità prima di Cristo non riusciva a realizzare e neppure a concepire o ricercare. Le statue greche ad esempio sono forme di idee più che espressioni reali di un concetto di persona umana, concetto che sorge con Agostino e con Severino Boezio, non prima. Nessun Fidia o Prassitele sarebbe mai riuscito a raggiungere i vertici mistici ed erotici che s’irradiano dal Ratto di Proserpina o dalla Beata Ludovica Albertoni del Bernini. I greci antichi hanno culturalmente e filosoficamente paura della carne e idealizzano la forma umana, semplificandola e serializzandola-concettualizzandola. La più povera e semplice icona bizantina o la più semplice pala latina o affresco medioevale, seppur di una pittura magari più rozza rispetto a quella romana più raffinata (i ritratti del Fayum ad esempio o i paesaggi pompeiani) esprime una profondità e una complessità interiore e trascendente che nessun autore pre-cristiano potrebbe mai raggiungere e infatti mai raggiunse. Persino nel campo dell’idealizzazione platonica nessun autore antico può anche solo avvicinarsi a Botticelli e Raffaello. Alcune volte è la nostra ermeneutica cristiana-moderna ad esaltare opere antiche non così importanti né così apprezzate un tempo. Pensiamo alla celebre Nike di Samotracia del Louvre. E’ la modernità cristiana che l’ha esaltata, e specialmente per un gusto formale derivante proprio dalla sua mutilazione che valorizza dialetticamente la linea delle ali. Per un antico sarebbe stata una semplice statua rovinata. L’uso delle statue per gli antichi era rituale, ierofanico. Mai avrebbero apprezzato una statua che avesse perso colore e volto né l’avrebbero apprezzata al di fuori del suo contesto templare-culturale. L’arte cristiana presenta una capacità di irradiazione performativa e di spessore inesistente prima. La pittura pre-cristiana appare mera decorazione, mera superficie. Non c’è anima. Al massimo emozione o simbolo. I Misteri dell’omonima Villa di Pompei sono un catechismo iniziatico ma non c’è passione né profondità animico-interiore. Il Cristianesimo trasfigura e sublima la carne e la celebra, pur spiritualizzandola e inaugurando un senso nuovo di mistero e di sacralità prima sconosciuto. Persino i primi goffi e primitivi dipinti delle catacombe (che riprendono stile e iconografia in gran parte precedente) mostrano immediatamente un qualcosa di nuova e inedito: un senso di vitalità e freschezza nuovo esprimente stati animici-interiori prima non documentati. Questo è un fatto oggettivo, che chi non ha pregiudizi non può che ammettere.
Di Roma ce ne è una sola oppure il cosiddetto mito delle tre Roma è assolutamente reale ed agente?
Roma è una ma il suo mito nella storia della cultura ha inciso così profondamente da venir declinato e inculturato in sempre nuove forme. Certamente l’intuizione geniale di Costantino ha creato una reale seconda Roma che ha evangelizzato molti popoli slavi e orientali cambiando la storia fino alla “romanità di riflesso” dell’Impero russo degli Zar. Ma anche la Serenissima Repubblica di San Marco trasuda sapienza romana nelle sua capacità idrauliche, nei suoi carismi festivi e nella ricchezza efficace delle sue molte magistrature. Roma è il Palatium, cioè la sacralità imperiale del potere e nel potere. Londra, Parigi, Washington quali nuovi miti sono tutte forme di imitazioni del senso della gloria associato alla memoria di Roma. Il mito è reale nella misura in cui se ne subisce il fascino. Il mito è azione, rito, fascinazione, aura, carisma, genius loci, visione-proiezione che può ispirare non solo gli artisti di qualsiasi tempo ma anche i potenti, i politici, persino la filosofia e l’economia. L’attuale crescente importanza geopolitica della Turchia e la stessa nuova drammatica centralità della Russia dimostrano, pur paradossalmente, che qualcosa di Roma quale Mito sopravvive quale contesa aura. Certo ogni mito riceve percezioni differenti e la storia della memoria non si rivela mai uniforme e unanime ma questo ne conferma la rilevanza e il fascino. Lo stesso Islam più tradizionale riconosce a suo modo l’importanza di Roma.
Parlando di questioni più devozionali, perché è cosi importante il terzo mistero di Fatima?
La profezia-messaggio di Fatima rappresenta la profezia più importante dei tempi moderni e una sorta di sintesi fra le tradizioni profetiche antiche di tipo apocalittico-messianico-escatologico e l’attenzione speciale di Dio verso gli ultimi secoli della storia umana. Si tratta di una terapia-strategia preziosa e decisiva per superare l’attuale crisi spirituale e morale dell’umanità: se il mondo oggi profana Fatima ci insegna a consacrarci a Dio, se il mondo oggi dimentica i fondamenti della fede cristiana Fatima ci ricorda l’esistenza dell’inferno, i novissimi e la centralità del tema della salvezza eterna dell’anima. Fatima sintetizza in modo chiaro, preciso e forte l’essenza della via cristiana quale ascesi verso Dio: a) la misericordia di Dio e il culto del Cuore Immacolato di Maria; b) l’importanza della preghiera quotidiana, specie del Santo Rosario; c) la preziosità salvifica delle pratiche di penitenza e di sacrificio per espiare i nostri peccati e quelli del mondo. Il tutto ruota attorno al tema della conversione del cuore, necessaria per raggiungere la vita eterna in Cristo. Fatima ci fa toccare con mano il cuore del Cristianesimo quale “culto spirituale del corpo” da offrire a Dio (Romani, 12,1). Tutto conferma oggi Fatima e la sua drammatica urgenza e attualità, persino la geopolitica, purtroppo. Il magistero di San Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI è tutta leggibile alla luce di Fatima e i recenti atti di affidamento e di consacrazione di Papa Francesco ne sono ulteriore conferma. Non si esce da Fatima: più passa il tempo e più splende fresca e giovane questa visione materna e accorata. Più ne ritardiamo l’attuazione più il dramma dell’attuale tempesta si aggrava e incombe.