Salve professoressa, lei è psicologa sociale e criminologa e direttore scientifico di Themis. Come nasce il centro di studi e quali attività svolgete?

Il nostro centro è nato proprio 20 anni fa, nel 2003, evolvendosi nel corso del tempo per far fronte alle sfide dettate dai nuovi scenari tecnologici, economici e sociali. Ricordo ancora un gruppo di ragazzi e ragazze (di cui facevo parte) che cercava la propria strada dopo la laurea in psicologia e il perfezionamento (e la passione) in criminologia. Da allora molte cose sono cambiate, nuove persone hanno dato linfa al centro, compreso un eccellente comitato scientifico. Ora siamo entrati a far parte del mondo del terzo settore, essendo un’associazione di promozione sociale senza fini di lucro. Svolgiamo essenzialmente attività di ricerca sui temi della psicologia, della sicurezza e del digitale con pubblicazioni nazionali e internazionali. Inoltre, collaboriamo in qualità di partner scientifici alla produzione di testi professionali pubblicati da “Edizioni Themis”, che vanta diverse collane sulla psicologia, criminologia, digitale e sicurezza.

Lei è autrice di un importante libro in inglese pubblicato dalla Springer ‘’Building a Cybersecurity Culture’’. Che messaggio ha voluto lanciare con la stesura di questo studio?

Ho voluto innanzitutto sottolineare l’importanza per la cybersecurity del fattore umano, che continua a costituire un elemento di debolezza e ad essere sottostimato. Eppure, anche il recente report di Verizon (Data Breach Investigation Report, 2023) evidenzia come il fattore umano sia ancora la causa principale degli incidenti di sicurezza e delle violazioni di dati (data breach). E lo ripete da anni, così come confermato da altri report. Il problema è quindi come occuparsene. Si fa presto a dire fattore umano, ma poi bisogna lavorarci in modo costante, cercando di cambiare l’atteggiamento mentale verso la sicurezza. Il testo, quindi, parte dall’analisi di scenario, per poi focalizzarsi sulle debolezze comportamentali e arrivare a definire fasi ed azioni necessarie per costruire una cultura della cybersecurity efficace.

Da esperta di cyberbullismo, secondo lei la rete funge da comburente di certe dinamiche legate all’aggressività umana che poi si riflettono nella realtà oppure è un modo per esorcizzarle e circoscriverle senza ricadute fattuali?

Premesso che l’aggressività è un istinto umano con il quale fare i conti, va comunque considerato che le caratteristiche della rete hanno un ruolo importante nel supportare certe dinamiche. Ad esempio pensiamo a come l’anonimato (o meglio la sensazione di anonimato) insieme al superamento dei vincoli spaziali e temporali inducano a meccanismi di giustificazione del proprio comportamento (i cosiddetti meccanismi di disimpegno morale) mentre si agisce in rete, come denigrare e insultare. Quando si è in tanti a fare qualcosa di inappropriato, si sperimenta una sorta di diffusione delle responsabilità (se sono tanti a fare una certa cosa è più difficile attribuire responsabilità). Talvolta poi è il desiderio di attirare l’attenzione su di sé a stimolare un comportamento fuori le righe: più si fa qualcosa di cui gli altri parlano, più si ottiene attenzione e aumentano i consensi.

Quale è il problema maggiore che le giovani generazioni si trovano ad affrontare a causa di un abuso dei social media e del web in generale?

Oggi le giovani generazioni (ma non solo) trascorrono molto tempo in rete ed in particolare sui social, per la possibilità di condividere opinioni, critiche, commenti e soprattutto video, che attraggono particolarmente i più giovani (pensiamo a TikTok o Instagram). Purtroppo c’è stata un’evoluzione in negativo nell’uso di questi strumenti, cosicché da strumenti di socializzazione si sono trasformati in luoghi virtuali dove però si arriva persino a mettere a rischio la propria vita (come nel caso delle sfide su Tik Tok). C’è poi un problema di dipendenza dai social, che porta i giovani ad essere connessi perennemente con il proprio smartphone ma non connessi con il mondo fisico che li circonda. Le stesse situazioni vengono vissute in funzione della visibilità che ne deriva sui social più che per il loro contenuto emotivo o relazionale, tanto che quando si va ad una festa, ad un concerto o altra situazione conviviale, ciò che è importante è testimoniare di esserci, postando foto e video. Questi vengono poi accompagnati da emoticons e di simboli, che pur costituendo un modo di comunicare, ovviamente non hanno nulla a che vedere con la modalità fisica di relazionarsi

Sta rilasciando questa breve intervista per un’associazione di ispirazione Cattolica. Secondo lei le religioni in generale che ruolo possono avere nel fronteggiare fenomeni di cyberbullismo?

Le religioni affrontano temi molto rilevanti per la società e la condizione umana. Possono avere quindi un ruolo importante nel promuovere principi e valori che sono alla base di una buona convivenza sociale. Non basta, infatti, educare al digitale, se prima non si educa al rispetto per gli altri.

 

di Lelio Antonio Deganutti

Tota Pulchra: Associazione per la promozione sociale

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