Il 27 marzo, come non accadeva da molto tempo, si è avvertito tra fedeli e non un momento di vera e profonda commozione. Le parole di preghiera  di Papa Francesco, durante la benedizione Urbi et Orbi, in una Piazza San Pietro deserta, non sono state soltanto belle, ma soprattutto vere.

Qualcuno mi ha detto una volta che non bisogna pensare alla preghiera come ad un elenco di richieste, ma come ad un' "occasione di comprensione" che avviene nell'incontro con il Signore. L’altra sera sono bastate poche e potenti parole del Santo Padre per chiamare tutti noi alla riflessione.

Quello che sta accadendo, nella sua drammaticità, ci toglie di dosso il velo della finzione, ci permette per una volta di mostrare finalmente agli altri che "possiamo essere tristi", ci fa accettare il fatto che in quanto uomini tutti noi siamo vulnerabili.

In questo silenzio assordante siamo costretti a fermarci un attimo per parlare con noi stessi, a chiederci cosa veramente è importante e cosa non lo è, cosa è passeggero e cosa resta, quale è il senso che diamo alla nostra vita.

Ci credevamo invincibili, ma non lo siamo. Ed ora che il trucco dell'apparenza si è sciolto, come se fossimo tutti sotto quella pioggia a Piazza San Pietro, siamo senza maschera e ci troviamo ad essere nudi davanti ai nostri limiti e alla nostra umanità.

All'improvviso ci siamo accorti che dipendiamo dagli altri, e che a prescindere dall’essere stati colpiti o meno in modo diretto da questa tragedia, non possiamo vivere sani in un mondo malato.

Dobbiamo, nostro malgrado, fare i conti col fatto che, una volta spogliati di tutto, le relazioni umane sono tutto ciò che ci resta. 

Tutto quello che possiamo fare adesso è chiedere aiuto, promettere a noi stessi che rivaluteremo le nostre priorità, dedicare il nostro tempo a chi ogni giorno abbiamo messo al secondo posto nell'agenda della nostra vita, sempre riempita dal superfluo e dalla futilità.

Il monito del Papa, che siamo credenti o no, ci chiama ad invertire la nostra rotta, a riscoprire la bellezza dei valori e della condivisione, a ritrovare quella Via Pulchritudinis dalla quale per troppo tempo ci siamo allontanati, rincorrendo falsi totem che da soli abbiamo costruito e dietro i quali ci siamo nascosti, per sfuggire all’impegno del confronto con noi stessi e con gli altri. 

La malinconia che ci pervade, in questo momento, è un sentimento che, come direbbe Baudelaire, non dobbiamo ignorare, ma anzi abbracciare perché essa ci conferisce finalmente una percezione della vita più profonda, ci permette di guardare con nuovi occhi alla bellezza di ciò che è davvero essenziale e che prima avevamo ignorato, presi dalla frenesia di correre ansiosamente verso un indecifrato futuro.

La verità è che, soprattutto le ultime generazioni dei paesi occidentali, non solo non sono abituate al sacrificio, ma a qualsiasi forma, pur minima, di privazione.

Ecco perché anche il semplice restare a casa, sembra essere per molti un peso insormontabile. Siamo abituati a pensare di dover essere sempre felici, sempre in vacanza, sempre sorridenti. Di poter avere amicizie senza uscire di casa, grandi amori senza investire davvero in un rapporto. Le nostre relazioni sono deboli e provvisorie, pronte ad essere buttate via al primo intoppo, come avviene con i beni di consumo, perché tanto  si potranno avere sempre tantissime nuove e migliori opportunità in seguito. Giusto? Sbagliato. Ci accorgiamo proprio in questi giorni di quanto sia fragile il castello di sabbia che abbiamo costruito, del resto questa è la prima grande crisi globale che le generazione dei social network, ma non solo, affrontano.

Ci troviamo ad essere soli e con rapporti precari perché non siamo disposti ad investire veramente nelle relazioni con il prossimo, a vivere da vigliacchi perché così ci hanno insegnato, perché questo abbiamo accettato. Pur di evitare di metterci in gioco e di correre il rischio di poter fallire, ci siamo rassegnati all’idea di non vivere veramente.

Negli ultimi anni non abbiamo fatto altro che inventare modi di evitare di scendere di casa, di guardarci negli occhi, di toccarci e di avere rapporti personali reali e duraturi. Per qualche strano meccanismo, però, adesso che non possiamo fare tutto ciò ne soffriamo. Forse ora che siamo invece “costretti” ad essere distanti, ora che sentiamo la mancanza di un abbraccio, abbiamo veramente la possibilità di riavvicinarci agli altri e a noi stessi, di ripensare alla qualità delle nostre relazioni umane.

E’ chiaro ormai che dobbiamo rielaborare il nostro modello di vita, la nostra società, i nostri schemi. Essi si sono rivelati ora più che mai ampiamente inadeguati a renderci davvero felici, rappresentando poco più che un feticcio di finzioni ed apparenza nel quale abbiamo per lungo tempo scaricato le nostre frustrazioni.

L’auspicio è che in questo difficile momento l'umanità intera possa fare tesoro delle parole di Francesco e da queste ognuno possa aprirsi ad una personale riflessione sulla qualità delle relazioni nella nostra vita e sullo spirito di fratellanza che ci unisce.

Ora che risulta con evidenza come la bellezza delle cose durature e dei legami ineludibili è l’unica che resiste al tempo, alle difficoltà e l’unica in grado di darci vero conforto e forza quando veniamo spogliati di tutto ciò che è effimero. Del resto, come lo stesso Pontefice ha affermato: “Nessuno si salva da solo”.

 

Dott. Carlo Di Napoli

 

 

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