Siamo tutti figli di migranti. E lo siamo da sempre, da quando cercavamo una sede stanziale per vivere e crescere in comunità, fino a quando abbiamo dovuto lasciare i nostri villaggi rasi al suolo e razziati dall’invasione del nemico di turno. Ci siamo spostati, siamo stati stranieri, abbiamo visto nei volti degli altri il sospetto, la paura, l’odio ma anche l’accoglienza, la condivisione, la compassione. Ed è grazie a quella compassione, a quella compartecipazione alla nostra vicenda che per secoli, millenni si è ripresentata, che siamo vivi, che ci siamo evoluti, che siamo ciò che oggi siamo. Perché dietro i nostri volti di autoctoni dinanzi allo straniero o di straniero dinanzi agli autoctoni abbiamo riconosciuto ciò che a noi mancava, un fattore di crescita, di evoluzione, dal modo di costruire una chiesa a come produrre il pane, a come tingere vestiti fino al commercio, allo scambio economico, al sogno di una vita migliore, perché la nostra non poteva essere vita, perché meritavamo una speranza, perché siamo nati per essere felici. E la felicità, la pace, se non arriva, la devi andare a cercare.
Come società di consulenza, ispiriamo la nostra attività, distribuita tra logistica ed accelerazione di sviluppo economico ed industria audiovisiva e cinematografica, all’umanizzazione dell’economia, una tipologia di visione dello sviluppo economico che incentra la sua attenzione sullo sviluppo umano, vero asset di ogni impresa, vera ricchezza di ogni azienda. La diversità insita in ciascun uomo, le particolari inclinazioni di ciascuno, le skills hard e soft che ogni persona può apportare in un contesto economico produttivo, sono la vera chiave di successo di qualunque organizzazione economica. Conta ciò che so fare, come lo faccio. Non da dove vengo.
Oltretutto bisogna ricordare che le nuove teorie organizzative esaltano il potenziale della diversità nei gruppi di lavoro. Diversità in quanto multiculturalità, arricchimento umano e professionale, tesoro preziosissimo per la nostra evoluzione e per il nostro progresso scientifico, tecnologico, culturale ed umano.
Ma sono un uomo, una donna, un bambino. So fare cose, posso fare cose e se non le so fare posso imparare a farle perché se sono qui, sono vivo e voglio vivere e, soprattutto, voglio farlo con la dignità che merito.
Ed ecco, perché è utile condividere un approccio sulla questione migranti che non sia qualunquistica, ma scientifica. Il progetto Migranti: a second life, si basa su un'esperienza pilota implementata con successo in Giordania sotto il nome di Jordan Compact. Lo scopo del progetto giordano era dare una possibilità di integrazione ai rifugiati siriani. La World Bank per l'implementazione efficace ed efficiente del progetto aveva stanziato circa 1 miliardo e mezzo di dollari. Inoltre, il progetto è suffragato da autorevoli articoli di dottrina internazionale, la maggior parte dei quali di matrice liberale.
A titolo informativo, il Jordan Compact è stato implementato in una zona economica speciale della Giordania, KHBTDA, nella vicina Za'atari, zona per rifugiati nella regione del Mafraq.
Il progetto, infatti, prevede che le zone in cui dare una nuova vita ai migranti siano proprio le Zone Economiche Speciali ed in Italia le Regioni del mezzogiorno, che tra l'altro sono le più colpite dall'emergenza umanitaria, sono proprio zone ZES.
In tali ZES sarebbe possibile delimitare delle aree a fiscalità di vantaggio in cui, stabilendo a priori una quota di migranti da far assorbire alle imprese, far lavorare regolarmente i migranti evitando di condannarli ad un sostanziale e passiva, quanto mai ingiusta, situazione di stallo in uno dei centri di accoglienza presenti sul nostro territorio. In tali centri, è risaputo, il know-how di ciascuno dei migranti accolti viene azzerato, le possibilità di lavoro sospese, sterilizzate. Uomini e donne con un background di studio o di lavoro si ritrovano nella disperata condizione di perdere la dignità del lavoro, dell'autosufficienza, dell'onorabilità, della speranza del domani.
Tale idea progettuale è tra l'altro basata su uno studio americano che dimostra i benefici dell'applicazione di un progetto così strutturato.
Nelle zone in questione:
- i migranti possono lavorare integrati con gli autoctoni,
- le imprese che li assumono ottengono contributi da parte della Banca Mondiale, o da altri Organismi preposti, a seconda della programmazione di ciascuno all’atto dell’implementazione del progetto, oltre a sgravi fiscali prevedibili per i lavoratori delle loro imprese. La percentuale di assunzione dei migranti deve essere stabilita per legge;
- nel periurbano, come avviene in molte zone industriali del mondo con successo, tali lavoratori possono avere una casa in cui vivere dignitosamente; Non sarebbero occupate solo da loro ma anche da lavoratori autoctoni, come avviene in molte realtà produttive del mondo;
- i migranti non graverebbero sul bilancio dello Stato ospitante, poiché i famosi 35 euro al giorno verrebbero commutati in lavoro contrattualizzato e retribuito (a pena di non ricevere i vari sovvenzionamenti). Ciò permetterebbe di evitare il drenaggio di risorse pubbliche trasformandole in produttività. La consapevolezza di un'integrazione e di un'utilità economica del lavoratore rifugiato/migrante permette anche di evitare radicalizzazioni e atti terroristici, frutto di emarginazione e scarse speranze di una vita migliore. La retribuzione non sarebbe solo a carico del Paese ospitante bensì a carico di una vasta rete di organismi internazionali tra cui la World Bank l,'UNHCR e l' UE. Non a caso il progetto originario si chiama Refugees Zones;
- contribuirebbero al PIL del Paese. Anche la Commissione Europea potrebbe svolgere un ruolo attivo in tal senso.
E' importante sottolineare che tali centri di residenza non consistono in ghetti ma in realtà multiculturali che si integrano all'interno del Paese ospitante. Il ghetto si crea quando la persona è emarginata, non sente il diritto ai servizi, non fa parte del tessuto lavorativo dello Stato, non è integrato nella realtà in cui vive e non sente di potere partecipare alla società che lo accoglie;
- coltiverebbero il proprio know how di background o se ne formerebbero uno. Loro stessi possono essere da stimolo per la creazione di start up;
-otterrebbero una certificazione riconosciuta in tutta Europa da poter spendere in un qualunque Stato membro in cui spostarsi una volta terminato il periodo di permanenza (questa volta attiva) nel nostro Paese.
Come detto, tale progetto deve essere realizzato in zone già riconosciute a fiscalità di vantaggio per unire i contributi della World Bank o degli altri istituti mondiali, agli sgravi fiscali, quando e se previsti. Naturalmente, una volta trovato l'interlocutore adatto che abbia la forza "politica" di gestire fiscalmente il progetto con il Governo, si possono trovare ampi margini per migliorarlo. Allo stato attuale, non avendo noi discrezionalità in senso politico e fiscale, non possiamo progettare qualcosa che non dipende dalla nostra discrezionalità o dalle nostre competenze amministrative, ma solo indicare una strada inclusiva e inquadrata in uno sviluppo integrale di esseri umani rei di provenire da zone difficili. Quel che possiamo fare, qualora gli Organismi internazionali ed Europei accettino di cavalcare un progetto in tal senso, è mettere a frutto la nostra esperienza in fatto di ZES e renderle luoghi di sviluppo umano ed economico ed insieme alle Istituzioni provvedere a renderli operativi. Questo il senso della "discrezionalità" a cui facevo riferimento.
Accogliere la diversità è investire nel futuro di un Paese.
La nostra provocazione vuole essere una riflessione. Sospendere vite significa emarginarle e svilirle sempre di più. Ciò non è degno di una Nazione civile. La Nazione civile accoglie, integra, mescola, permette un mutuo arricchimento. Le persone, da qualunque parte del mondo arrivino, in qualunque Dio credano, qualunque lingua parlino, sono la ricchezza del mondo, un bagaglio di esperienze e cultura, di voglia di vivere e di storia da raccontare, non a voce, vivendo, lavorando, lasciando traccia di sé. Siamo noi un ghetto quando l’altro è fuori, quando l’altro lo liquidiamo con un “torni a casa!”, quando l’altro è un problema e non una risorsa.
Valentina di Milla